Il dibattito attorno al futuro dell’esercito si sta purtroppo riducendo a un balletto di cifre in cui si cerca di trovare una combinazione ideale tra numero di militi (tra 60’000 e 120’000 persone) e budget da destinare alla difesa (tra 4,6 miliardi e 5,3 miliardi di franchi). Questo approccio rischia di trascurare l’unica domanda essenziale: quali compiti vogliamo affidare al nostro esercito?
Solo sulla base della risposta che diamo a questo interrogativo cruciale è possibile definire quali mezzi occorrono per adempiere a questi compiti e a quali costi. Oggi, purtroppo, l’impressione è che prima si vogliono definire i mezzi (p. es. 60’000 soldati e 4,6 miliardi) e poi stabilire quali missioni possono essere affidate all’esercito con questi mezzi. Questo approccio può forse funzionare con una squadra di calcio (in base al budget e al numero di giocatori si stabilisce l’obiettivo di classifica), ma non può essere utilizzato per affrontare seriamente le esigenze di sicurezza del nostro Paese. Su una questione delicata come la difesa nazionale, il rischio è di cadere nella cerchia degli irresponsabili. Come Verdi e Partito socialista, favorevoli – nei loro programmi elettorali – all’abolizione tout-court dell’esercito e che lascerebbero all’ideologia il compito di garantire la sicurezza del nostro Paese.
Oggi la minaccia di un’aggressione militare può apparirci inconcepibile e irrealistica, ma questo non autorizza a smantellare le nostre forze armate, anche perché occorrerebbero poi 15 anni per ricostituire una capacità di difesa adeguata. La catastrofe di Fukushima dovrebbe averci insegnato quanto sia scellerato trascurare i cosiddetti “rischi residui”.
Il 25 giugno 2011 la Società svizzera degli ufficiali ha indicato 23 presupposti per continuare a svolgere in modo efficace e credibile le missioni che la Costituzione affida al nostro esercito: mantenimento del sistema di milizia, presenza decentralizzata sul territorio, plurilinguismo, aggiornamento costante dell’equipaggiamento e della tecnologia. Benché “di parte”, si tratta di un documento di lavoro utile e non trascurabile, pur sullo sfondo di un quadro assai problematico. Le accresciute esigenze del mondo globalizzato, rendono in effetti sempre più difficile conciliare il servizio militare e l’attività lavorativa, ciò che richiederà all’esercito (che è comunque tra i meno cari d’Europa) un ulteriore sforzo di flessibilità e razionalizzazione. Queste inevitabili tendenze non dovranno però costituire il pretesto per mettere in discussione il ruolo del nostro esercito, quale indispensabile strumento di difesa, di sostegno alla popolazione e di promozione della pace. Né dovrà venire meno la sua funzione di formidabile veicolo di integrazione delle diverse realtà della nostra variegata Svizzera.
Marco Romano