Le bizze atmosferiche di questo autunno e gli eventi drammatici che hanno scosso il nostro territorio ci hanno ricordato quanto diamo per scontato un luogo caldo e asciutto in cui sentirci al sicuro. La natura non fa sconti, non solo in luoghi fisicamente e mentalmente molto distanti da noi. A ricordarcelo è anche la campagna invernale promossa dal Giornale del Popolo nell’ambito dell’iniziativa “Adotta un cristiano in Iraq”. Proprio mentre il freddo sta lentamente facendo capolino anche alle nostre latitudini, non sembrano migliorare le condizioni dei milioni di profughi che hanno dovuto abbandonare le loro terre in Medio Oriente. Le testimonianze dirette che giungono fino a noi sono cariche di paura e di sofferenza. Spesso si dimentica o si sottace che l’ottanta percento degli esuli dai conflitti siriano e iracheno si è rifugiato nei Paesi circonstanti. I campi profughi sono stracolmi e “l’Europa sicura” rimane un miraggio lontano. Per molti è sempre più difficile guardare al futuro.
In questo contesto estremamente fragile e in continuo mutamento si iscrive il sostegno svizzero. Da più fronti in queste settimane si chiede “di fare di più” o “di donare di più”? Appelli legittimi, ma approfondendo la questione si evince un quadro di una Svizzera molto attiva e presente. Non è solo una questione di numeri. L’impegno elvetico è spesso discreto e silenzioso, passa attraverso il lavoro diplomatico e molte piccole e grandi iniziative che si inseriscono come tasselli di speranza nel mosaico umano, sociale ed economico fatto a pezzi della guerra. Non vi è solo l’aiuto istituzionale, ma anche quello sussidiario di numerosi attori privati che si attivano in prima persona; la citata iniziativa ne è un positivo esempio. La Svizzera non è un Paese che sta a guardare. Si può sempre invocare un sforzo maggiore, ma in questo momento ad essere totalmente deficitaria è la reazione della comunità istituzionale internazionale.
Nei citati comprensori la Svizzera ha già elargito contributi diretti pari a oltre 125 milioni di franchi. Si tratta di numerosi progetti concreti in Siria ed Iraq. Facendo leva sui nostri valori – democrazia, neutralità, convivenza fra lingue e culture – la Svizzera si è proposta come un modello da seguire, un interlocutore affidabile e concreto. In Patria sono state intraprese numerose misure per dare accoglienza ai rifugiati. La diplomazia Svizzera dedica grande attenzione alla situazione e il nostro Paese si mostra solidale e disposto ad accogliere contingenti di persone che meritano particolare protezione.
Il conflitto non è però ancora terminato e gli scenari sono preoccupanti. Nelle terre oggi percorse da terroristi armati affonda le sue radici il cristianesimo. Sostenere le minoranze in questo momento a margine delle zone di guerra, così da permettere loro di rientrare nelle loro regioni d’origine una volta terminato il conflitto è l’obiettivo che la Confederazione vuole perseguire nei prossimi mesi e anni. Punto di incontro fra religioni il territorio è oggi lacerato, tanto da fare affermare al presidente della Federazione degli Aramei in Svizzera, signor Melki Toprak, in una recente intervista sulla Rivista di Locarno che “non c’è più vita per i cristiani d’oriente”.
Pubblicato su Giornale del Popolo, 16.12.2014