Il Consiglio nazionale ha discusso ieri l’iniziativa popolare promossa dall’UDC per modificare il sistema di elezione del Consiglio federale. I promotori chiedono che si passi dall’elezione da parte dell’Assemblea federale ad un’elezione diretta popolare con un sistema maggioritario.
La proposta non è nuova e già nei primi decenni del ‘900, su spinta soprattutto dei socialisti, si discusse e si votò due volte, senza risultato positivo, su questo radicale cambiamento.
L’esito della lunga discussione al Nazionale è stato chiaro e nettamente contrario. Il voto ha sancito un chiaro NO con 128 voti contrari contro 43 e 10 astenuti, dopo che già il Consiglio degli Stati aveva respinto l’iniziativa. Nella prima metà del 2013 toccherà al Popolo svizzero esprimersi.
La discussione parlamentare ha anticipato un dibattito vigoroso. Personalmente ritengo i contenuti di questa iniziativa inutili e inopportuni per la stabilità e la capacità strategico-operativa delle nostre Istituzioni. L’attuale sistema non è perfetto, ma questa riforma crea più danni che benefici. Si può non essere soddisfatti dell’attuale composizione del Governo, si può recriminare per la non rielezione di un proprio candidato, si può rivendicare una differente composizione partitica del gremio, si può non apprezzare l’operato di un singolo consigliere federale. Tutto lecito e legittimo; ci mancherebbe, è parte della discussione democratica. L’elezione popolare non da tuttavia garanzia di risolvere queste problematiche, per altro spesso soggettive.
E’ però chiaro che il nuovo sistema di elezione creerà una forte spettacolarizzazione (“americanizzazione”) del sistema, i consiglieri federali saranno costantemente in campagna elettorale e i costi necessari per essere eletti saranno ingenti. Non bisogna essere esperti di marketing per immaginare che la campagna nazionale di un singolo candidato, in ogni angolo del Paese per almeno un anno, potrà costare qualche milione di franchi. In questo modo si mina la stabilità e la governabilità del Paese. La cerchia di persone che avranno la possibilità e la volontà di accedere al Consiglio federale si restringerà ulteriormente, mentre dietro le campagne dei singoli candidati o dei membri già in carica in cerca di una rielezione si muoveranno grandi gruppi di interesse disposti a finanziare massicciamente le campagne.
Tutto questo quali problemi risolve? Nessuno di quelli citati. La Svizzera ha bisogno di consiglieri federali che lavorano e non di uomini e donne in permanente campagna elettorale. I membri del Consiglio federale ricevono un mandato dal Parlamento e operano per il Paese, non sempre facendo l’unanimità, magari sbagliando, ma senza doversi occupare esclusivamente di guadagnare il consenso popolare.
In aggiunta, l’iniziativa presenta un approccio scorretto nei confronti delle minoranze linguistiche e delle regioni periferiche del Paese. L’odierna rappresentanza della Svizzera italiana in Consiglio federale è insufficiente. L’assenza dura da troppo tempo. Quest’iniziativa non presenta tuttavia una soluzione alla problematica. La garanzia costituzionale di “almeno due seggi” crea una pericolosa, e per i Ticinesi offensiva, semplificazione della pluralità elvetica. La Svizzera non è composta da due realtà, gli “svizzeri tedeschi” e poi tutti insieme in un calderone “gli altri”; ticinesi, romandi e romanci che siano. Il Ticino sarà campo di battaglia per raccogliere pochi voti, magari decisivi, ma comunque non garanti di rispetto nei confronti della Svizzera italiana. Inoltre questa “garanzia di minimo due seggi” diverrà a breve termine in pratica un “massimo due seggi”, evidentemente saldi nelle mani della romandia.
Quest’iniziativa stravolge dunque un sistema che nella storia è riuscito a garantire equilibrio, governabilità e rispetto per la pluralità del nostro Paese.
Pubblicato su Giornale del Popolo, 05.12.2012